domenica 18 maggio 2014

Lacrime di fotografo

Un momento dell'incontro con Sara Naomi Lewkowicz presso la sede del Gruppo Fotografico Progetto Immagine a Lodi.
Da sinistra Aldo Mendichi, Sandro Iovine, Sara Naomi Lewkowicz, Marta Lutzu e Alberto Prina. © Arianna Pagani.

Osservando le sue fotografie non immagineresti che Sara Naomi Lewkowicz sia così giovane. Quando parla di sé dice «Io non sono una fotografa, sono una studentessa, mi manca ancora un semestre per finire». Complice l'ambiente estraneo e la lingua sconosciuta che vi si parla, si muove nello spazio come se cercasse di non entrare in contatto con ciò che la circonda. Scivola via quasi fosse trasparente a dispetto di scelta nell'abbigliamento discretamente yankee

«Falle molte domande - mi avvertono prima di iniziare l'incontro- perché tende a tagliare corto nelle risposte e poi ha detto di essere in imbarazzo a parlare davanti alla gente».
In effetti le risposte sono tendenzialmente secche come si addice a chi proviene da una cultura anglosassone e, nonostante riesca a dissimularla dietro un distacco che non favorisce una sensazione di simpatia galoppante, Sara Naomi Lewkowicz deve essere tesa e risponde in modo puntuale sì, ma maledettamente conciso e con un non so che di gelido. L'unico momento di contatto umano è un lungo sguardo occhi negli occhi mentre le faccio una domanda, come se non capendo una parola di ciò che sto dicendo (per rispetto del pubblico e soprattutto della lingua inglese si è deciso di ricorrere a una traduzione e quindi ognuno parla nella sua lingua). 
L'atmosfera cambia quando le chiedo se pensa che il suo lavoro sulla violenza domestica possa incidere sulla vita delle donne che vivono sulla propria pelle il problema. Sara risponde raccontando di una donna che le ha scritto dopo aver visto pubblicate le fotografie di Shane e Maggie. Questa donna aveva cacciato di casa il marito, ma stava riflettendo su come ricomporre il rapporto, magari facendolo rientrare in casa. Dopo aver visto le immagini però si era convinta a rompere definitivamente. Le lacrime esplodono senza preavviso mentre Sara parla, sgorgano dagli occhi e fanno riflettere. E questo al di là della tensione per l'impatto con il pubblico o di quelle che possono essere state le esperienze familiari indirettamente vissute attraverso i racconti della madre che da piccola aveva assistito a scene simili a quelle fotografate da Sara.
Personalmente non sopporto le manifestazioni di emotività, tantomeno pubblica, non di meno quanto accaduto ieri sera è uno spunto per una riflessione sul peso emotivo che sono costretti a sostenere quei fotografi che scelgono di raccontare storie pesanti come quella di Shane e Maggie o anche ben peggiori. 
Un certo tipo di opinione pubblica, poco incline alla discriminazione, tende a bollare univocamente queste situazioni come sfruttamento delle disgrazie altrui. I fotogiornalisti sono solo avvoltoi che speculano sulla sofferenza degli altri per queste persone. 
Ora che esistano fotografi che meritano simili giudizi è indubbio, ma non si può estendere il concetto indiscriminatamente. E non si può sottovalutare il prezzo che i professionisti pagano sotto il profilo umano per svolgere la loro professione. E ancora non bisogna dimenticare che tra il lavoro del fotografo e il suo diventare pubblico c'è di mezzo una catena produttiva all'interno della quale il significato e lo spirito all'origine del lavoro possono essere stravolti. Non dobbiamo dimenticare che prima di trarre delle conclusioni, utilizzando come fonte ciò che ci viene mostrato dai mezzi di comunicazione, è sempre opportuno farsi delle domande sul perché le cose vengono mostrate in un certo modo e su chi sia a poter trarre potenziale vantaggio da quel modo di presentare le cose.
Un grazie ad Aldo Mendichi che ieri sera durante l'incontro con Sara Naomi Lewkowicz ha dato il via a questa riflessione che credo meritasse di essere estesa anche a chi non era presente. 


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